ORA SANTA
Meditazione di Don Jean Gallot
Tratto dal loibro: "La beata Passio"
La
notte
Per
un istante, nel cenacolo, la porta si era aperta sulla notte. In quella notte,
in cui Giuda si era immerso per consumare il suo tradimento, Cristo stava a
sua volta per impegnarsi. Terminata la cena, si ritrovò nell'oscurità con il
gruppo dei discepoli. Sapeva ciò che Giovanni comprese molto più tardi e ci
suggerì nel racconto evangelico, cioè che quella notte era un simbolo: l'ora
delle tenebre era giunta.
Così,
uscendo dalla calda atmosfera della cena pasquale per entrare nel freddo
silenzio della strada, dovette sentirsi, per così dire, sepolto: improvvisamente
l'oscurità l'avvolgeva da ogni parte, come se volesse farlo passare dal regno
della vita al regno della morte. La vita non è forse nella luce? Gesù, che si
era servito di questi simboli per predicare la sua dottrina, ora ne riceveva la
controprova. Le tenebre volevano impadronirsi della luce.
Questo
brusco cambiamento di scena, che in altre circostanze sarebbe passato
inosservato, fu in quel momento percepito in modo acuto dal Signore. Discendendo
per il pendio che lo conduceva al Cedron, Gesù intuì sempre più di essere
insidiato dalle tenebre. Il momento, così bello e luminoso, atteso con
impazienza e consumato con tranquillità, della cena e dell'ultima riunione tra
amici, era veramente svanito. Seguivano il Maestro, tra le case, soltanto delle
ombre umane, che avevano perduto la vivacità di poco prima. Gente affaticata
scendeva meccanicamente, un ritmo mesto e pesante faceva desiderare il sonno, ma
Cristo sapeva che quella notte non era fatta per dormire, sapeva quanto
quell'oscurità sarebbe pesata sulle sue spalle. Già nella discesa verso il
Cedron egli rassomigliava ad un operaio che deve portare fino alla meta un
carico schiacciante.
In
fondo al declivio, mentre costeggiava il letto del torrente, poteva alzare gli
occhi verso la città santa. Anche l'intera città, sebbene fosse sulla montagna,
era nascosta: la città, e non il Signore, si trovava ora nelle tenebre.
Gerusalemme era sommersa in un'ombra profonda; respingeva lontano da sé la «
luce delle nazioni ». Cristo che l'aveva lasciata vi sarebbe ritornato come
prigioniero, prima di entrarvi come vincitore. Camminando verso gli uliveti del
Getsemani, Gesù non poteva staccare il pensiero da quella città che aveva
tanto amato e la cui ostilità l'opprimeva. Tutto il peso della notte che
circondava la collina di Sion sembrava cadere su di lui, silenzioso ma
implacabile. La notte era abitata da Giuda e dal principe di questo mondo.
Il
Maestro pensava anche ai suoi discepoli, che in quella notte sarebbero stati
turbati e dispersi. Li aveva avvertiti della prova che stava per abbattersi su
di loro: « Tutti voi sarete tristi e scoraggiati da ciò che succederà nel
corso di questa notte. Poiché sta scritto: io colpirò il pastore e le pecore
del gregge saranno disperse ». Ma all'avvertimento non manca di aggiungere
una nota fondamentale di speranza: « Dopo la mia resurrezione, vi precederò in
Galilea » (Mt. XXVI, 3132). Gesù sa che il Getsemani sarà soltanto una
sosta, che non lo farà giungere in ritardo rispetto ai suoi discepoli, ma gli
permetterà finalmente di precederli in Galilea e di attenderli là. Quella
notte è solo una tappa per altre giornate.
Pietro
non ha neppure ascoltato la profezia finale della resurrezione. Le prime parole:
« Tutti voi sarete scoraggiati » hanno provocato in lui una focosa reazione.
No, non sarà così: « Anche se gli altri fossero scoraggiati, io non lo sarò
» (Mt. XXVI, 33). A questa dichiarazione impetuosa, Gesù risponde calmo e
persuasivo: « Simone, Simone, ecco che Satana vi ha cercati per vagliarvi
come si fa col frumento, ma io ho pregato per te perché la tua fede non venga
meno» (Lc. XXII, 3132). Il Maestro vuole far capire che la lotta si scatenerà
con una forza superiore: Satana infatti colpirà i discepoli, come si scuote
il grano in un setaccio. Pietro non potrebbe resistere con le sue sole forze,
resisterà soltanto grazie alla preghiera del Salvatore che lo sosterrà nella
fede e gli permetterà di riprendere il cammino, dopo un momento di
scoraggiamento e di abbandono. « E tu, quando ti sarai ravveduto aggiunge
Gesù conferma i tuoi fratelli » (Lc. XXII, 32). Ma, di nuovo, Pietro non ha
ascoltato le ultime parole, quelle che assicurano la vittoria, e pensa soltanto
al cedimento che Gesù ha previsto e che egli rifiuta: « Signore, io sono
pronto ad andare con te in prigione e alla morte » (Lc. XXII, 33). Poiché il
Maestro aveva parlato in tono più commosso, anche Pietro conferma con emozione
la sua assoluta fedeltà. Questa volta Cristo gli predice solennemente: « In
verità, ti dico, prima che il gallo canti due volte, tu mi avrai rinnegato tre
volte » (Mc. XIV, 30). Ma la solennità dell'annuncio non fa che spingere
Pietro ad una negazione ancora più formale: protesta così violentemente
contro l'affermazione di Gesù, che trascina tutti gli altri a fare la stessa
cosa. Nessuno accetta la profezia, pur chiaramente annunciata e ripetuta.
Niente
è più chiaro e indicativo delle resistenze incontrate da Gesù nei discepoli.
Il Maestro deve combattere con i nemici esterni; ma i suoi amici talvolta gli
oppongono una resistenza più forte e interiore. In quel momento Gesù non
riesce a convincerli. In quella notte, egli è il solo che porta la luce,
eppure non riesce a illuminarli. L'ombra è più forte e sta dalla parte dei
discepoli. Il Maestro tace e avanza nelle tenebre.
Arrivando
nel giardino del Getsemani, in cui era solito riposarsi dalle fatiche della
giornata, Gesù dice ai discepoli di sedersi e di attendere che la sua preghiera
sia terminata. Poi prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e in questa
cerchia più ristretta di amici comincia a dire: « La mia anima è oppressa
dalla tristezza fino a morirne » (Mc. XIV, 34).
Mai
il Maestro ha fatto una confidenza così struggente sulla condizione della sua
anima. E non addolcisce l'espressione, né cerca di velare la violenza
dell'ondata che lo sommerge. Non dice: « Sono triste », ma: « La mia anima è
oppressa dalla tristezza », per sottolineare che la tristezza lo circonda da
ogni parte e penetra fino in fondo al suo animo. Eccolo, il battesimo in cui
doveva essere completamente immerso. Prima di essere un battesimo di acute
sofferenze, è un battesimo di immensa tristezza. La sua tristezza è così
profonda e totale che potrebbe farlo morire. Sulle labbra del Signore, le parole
« fino a morirne » non sono una esagerazione. Egli si sente come soffocato e
travolto da quella malinconia opprimente.
Da
dove viene questa oppressione? Tra le cause vi è certamente il peso delle
fatiche della sua vita apostolica, che Cristo aveva sopportato validamente e con
gioia, senza misurare gli sforzi, senza controllare la sua generosità. Ma oggi
l'ipertensione causata dalle predicazioni prolungate di fronte alle folle,
dalle controversie incessanti con i farisei, l'estenuazione per le lunghe
preghiere notturne e il dispendio di forze provocato dalle lunghe camminate
sulle strade di Galilea e di Giudea sembrano ricadere su di lui. L'intensa
emozione del momento dell'istituzione della Eucaristia ha contribuito molto ad
accasciarlo. Di fronte alla prospettiva imminente delle sofferenze, Gesù si
sente infinitamente stanco.
Tuttavia
la fatica non è ancora la tristezza. Perché in quel momento il fardello è più
pesante e suscita in lui il dolore? Non sorprende forse che lo stesso Gesù,
il quale dichiara ai discepoli la sua intima pena, poco prima avesse loro
promesso una gioia definitiva? Come poteva la fonte della gioia essere
sommersa dalla tristezza? Cristo aveva in un altro momento proclamato le
Beatitudini. Egli sa dove si trova la felicità e ha potere su essa. Perché dunque
è in preda a una malinconia così cupa?
Vi
è un mistero, un mistero che mette in gioco l'intimità stessa di Gesù, la sua
relazione con il Padre, perché nella sua vita proprio la presenza viva e
sentita del Padre faceva scaturire la gioia. Nell'ora del Getsemani, Gesù non
sarebbe immerso in una tristezza così assoluta se percepisse ancora sensibilmente
la presenza beatifica del Padre. Forse il sentimento di questa presenza è
improvvisamente venuto meno in lui: la gioia ha ceduto il posto a un grande
vuoto, a un abisso, poiché il Padre stesso sembra abbandonarlo.
Occorre
ricordare il fervore del Maestro nel parlare del Padre celeste, l'insistenza
con cui egli descriveva la sua stretta unione con lui, la sua gioia di trovare,
nelle cose e negli uomini, manifestazioni della bontà o della potenza del
Padre. La presenza paterna illuminava l'esistenza di Gesù, costituiva la
fonte dei suoi pensieri e delle sue azioni. Ora questa luce sembra cedere il
posto alle tenebre. Certamente la unione con il Padre rimane incrollabile
nell'animo del Salvatore, ed egli ne è conscio: « Non sono solo, perché il
Padre è con me » (Gv. XVI, 32). Ma tale unione è ormai nascosta, e dà
l'impressione di essere assente. Essa non viene più percepita né apprezzata;
non genera più né gioia né entusiasmo. Per il sentimento, è come se avesse
cessato di esistere.
Così,
prima di subire la morte del corpo, Cristo subisce una morte interiore. Gli
viene meno il suo affetto più caro. Il Padre sembra essere scomparso e così
ogni gioia è cessata. è come un passaggio improvviso dalla pienezza al
nulla: Cristo assapora in questo momento una terribile solitudine, di cui non
aveva prima mai fatto l'esperienza. Cerca invano la presenza amata: il Padre,
che ha tutto insegnato a Cristo, non parla, non gli risponde; egli, che ha operato
tanti miracoli attraverso il Salvatore, non agisce più. In fondo all'anima di
Gesù regna un silenzio mortale.
Per
inoltrarsi in questo mistero, si può ricordare lo stato di desolazione
descritto dai mistici. Accade anche all'anima più fervente di sentirsi completamente
spogliata di ogni sentimento, di avere arido ed inerte il cuore, prima
infiammato d'amore. I mistici sentono crudelmente questa sensazione dell'assenza
di Dio. Cristo nel Getsemani ebbe un'analoga impressione: non era un tormento,
ma piuttosto un'incapacità, un vuoto, dove prima c'era la presenza del Padre.
Così egli era in preda a una tristezza senza fine.
Nessun
mistico ha mai assaporato una desolazione così assoluta come quella del
Getsemani. Nessuno infatti ha potuto apprezzare come Cristo la felicità di
un'anima interamente posseduta da Dio; nessuno avrebbe potuto raggiungere il
grado di intimità di Gesù con il Padre. Da allora nessuno è stato così
profondamente invaso dall'abisso del vuoto interiore che segue la pienezza.
Gesù sente l'assenza di Dio intensamente, come prima aveva sentito la sua
presenza. Si potrebbe dire che Cristo raggiunge, nel momento dell'agonia, la
tristezza assoluta.
Non
è sorprendente che una tristezza così greve abbia invaso Gesù? Perché
Cristo si trova colpito nel sentimento più profondo, cioè nell'intimità con
il Padre? Se avessimo dovuto immaginare una Passione del Verbo incarnato,
avremmo volentieri ritenuto inaccessibile alla prova il santuario dell'amore
filiale nell'animo di Gesù. Noi avremmo riconosciuto uno stato psicologico
incrollabile, una fortezza interiore nella quale la sofferenza non avrebbe
potuto penetrare. Lo spettacolo del Getsemani e la confessione, fatta da
Cristo, di una tristezza totale, in cui la sua anima si sentiva morire,
riescono per noi sconcertanti.
Senza
dubbio questo dramma ha un grande valore e porta conforto a chi è sottoposto a
una pena simile. Nelle pene interiori e nelle prove spirituali, gli uomini
sanno che Cristo li ha preceduti sulla stessa via conoscendo una tristezza più
grande della loro, spinta al limite della tristezza umana. Le anime fervorose,
la cui felicità consiste nel vivere in intimità con Dio, sono da quel momento
meno sorprese di incontrare la pena di un vuoto nell'animo, dell'assenza
apparente di Dio.
Tuttavia
la tristezza coglie così profondamente l'anima di Cristo, non soltanto per
essere di conforto agli altri; quest'anima è colpita nella sua intimità con il
Padre, perché deve in quel momento portare il peso dei peccati del mondo. Il
peccato separa l'uomo da Dio; rompe la relazione di amicizia che il Creatore
ha voluto stabilire con la sua creatura, e mette fine alla presenza divina
nell'animo umano. Secondo la parabola del figliol prodigo, il peccato è
l'azione di un figlio che abbandona suo padre e vuole vivere lontano da lui.
Perciò il peccato toglie all'uomo il possesso di Dio e della sua intimità, e
lo immerge nella più grande infelicità, poiché il possesso di Dio è il più
prezioso frutto della vita umana, la vera fonte della gioia.
Poiché
Gesù si assume il carico di tutti i peccati dell'umanità, la sua più profonda
sofferenza consiste nel sentire la lontananza del Padre. Non può sentire la
separazione da Dio come la sente un peccatore; egli resta innocente, il suo
essere è indissolubilmente unito al Padre, e la sua volontà resta in piena
armonia con la volontà paterna. Non può dunque trovarsi in preda alla
contraddizione intima che costituisce il tormento dell'uomo in stato di peccato:
contraddizione tra la tendenza fondamentale dell'essere umano orientato
verso Dio e la volontà che rifiuta di amarlo. Il peccatore infatti soffre per
il fatto di respingere volontariamente il Signore verso il quale dovrebbe
tendere; si autoinfligge la tristezza di privarsi del suo bene.
Cristo
non poteva soffrire per questa contraddizione. Ma è giunto fino ad assumere
il dolore della privazione della presenza divina e dell'offuscamento completo
dell'anima.
La
tristezza che avvolge Gesù è dunque un riflesso dei peccati del mondo; ma è
pura e santa, anche se in realtà è ancora più dolorosa. L'immenso amore di
Cristo per il Padre rende la sua pena molto più acuta.
Si
potrebbe dire che ora il Salvatore è triste per tutti i peccatori che
dovrebbero rattristarsi delle loro colpe e non lo fanno abbastanza. Egli nella
sua santità assoluta non poteva conoscere il pentimento, ma ha voluto
assaggiare, in virtù di un amore perfetto, il gusto amaro di privarsi di una
presenza, alla quale tutta la sua persona aderiva con l'affetto più ardente. La
sua tristezza è l'eco perfetta, in un cuore umano, di quella causata al Padre
dal peccato dei suoi figli, e che la parabola del figliol prodigo ci suggerisce.
In questa parabola il padre infatti soffre per l'affronto di suo figlio e per la
sua partenza, mentre sarà felice per il suo ritorno. Considerando la gioia
manifestata al momento del suo incontro con il figlio pentito, si indovina fino
a quale punto il suo amore paterno ha dovuto essere torturato ed afflitto dal
comportamento e dall'assenza del figlio ribelle. Il mistero di un cuore paterno
afflitto dalla lontananza dei figli prodighi si riflette nel mistero
dell'agonia, in cui il Figlio fedele assapora, nella profondità e pienezza
della sofferenza umana, la separazione dal Padre.
Così
si chiarisce il senso della tristezza più profonda predestinata ai seguaci di
Cristo, l'impressione di un Dio lontano e assente. Se il Salvatore non avesse
subito questa prova, si sarebbe potuto pensare ad essa come ad una conseguenza
dei peccati personali, che sfociava semplicemente nella purificazione individuale.
L'esempio di Gesù mostra che questa tristezza è un peso dovuto ai peccati
dell'umanità e che colpisce le anime più impegnate in una missione di redenzione
o di apostolato. Essere privati del senso della presenza divina vuol dire essere
chiamati a offrirsi al Padre per riparare le colpe del mondo.
Questa
tristezza non è il segno di una lontananza reale da Dio, ma piuttosto
un'indicazione di fervore. L'anima afflitta dall'assenza divina è in realtà
un'anima in cui l'amore di Dio si è ampiamente sviluppato; essa soffre per
l'assenza dell'Essere amato, pur restando intimamente unita al Padre nella
prova, perché il Padre la rende partecipe della sua afflizione per i peccati
dei suoi figli: è un'anima intimamente impegnata con lui nel dramma della
redenzione.
Nel
Getsemani Gesù è in preda allo spavento. La parola usata dall'evangelista san
Marco indica una paura violenta, che si impadronisce improvvisamente dell'anima
(Mc. XIV, 33). Un vero stupore invade Cristo di fronte alla prospettiva
imminente della sua Passione.
Questa
paura è in contrasto con la serenità abituale di Gesù, con la calma sovrana
che anima la sua attività nella vita pubblica. Rammentiamo che, nella barca
flagellata dalla tempesta, egli aveva dormito, e che i suoi apostoli
terrorizzati, destandolo, non gli avevano causato nessuno spavento. Con il suo
atteggiamento calmo insegnava ai suoi discepoli a dominare la paura e a
conservare la fiducia. Invece nell'Orto degli Ulivi egli stesso era assalito
dalla paura, e vivamente impressionato dalla previsione delle sue prossime
sofferenze.
La
paura che si addormentano, a dire il vero per incoscienza, mentre il Maestro
comincia a tremare.
La
paura di Cristo ci aiuta a comprendere come egli non sottovalutasse il supplizio
che stava per subire. Con l'onnipotenza divina presente in lui, Gesù avrebbe
potuto affrontare la sofferenza, disprezzandola come irrisoria. Che cosa è un
dolore, anche se profondo e forte, in confronto a Dio? Ma giustamente la verità
dell'Incarnazione si manifesta nello spavento di Gesù. Il Figlio di Dio
incarnato è un uomo autentico, un uomo che spontaneamente prova un moto di
ribellione e di paura di fronte al supplizio. La divinità non impedisce a
Cristo di essere un uomo integrale, di lasciarsi prendere dalla paura. Questa
paura garantisce la sincerità della Passione, testimonia la grandezza del
sacrificio.
Nel
meditare sulla paura di Gesù, si può paragonare il suo atteggiamento a
quello consigliato dalla filosofia stoica. Gli stoici insegnavano a conservare
una totale indifferenza di fronte al dolore, a ignorare al massimo la pena
sentita e a non ammettere la possibilità di turbamento delle facoltà superiori
dell'uomo. Ciò significava guardare la sofferenza dall'alto. Cristo ha
l'umiltà di considerarla dal basso. Invece di rendere la sua anima dura ed
insensibile, si lascia turbare dalla terribile prospettiva del Calvario, e
sperimenta il sentimento di un terrore profondo.
Perché
questa differenza? L'atteggiamento stoico potrebbe sembrare più degno; non è
tipico della nobiltà umana conservare una completa serenità tra avvenimenti
sconvolgenti, e la perfezione morale non si augura che l'uomo conservi la
padronanza di sé, dominando i suoi moti istintivi come per esempio la paura?
Infatti Gesù resta padrone di se stesso, ma non pretende di chiudersi in una
torre d'avorio. In lui tutto è amore; l'amore lo rende disponibile sia al
supplizio che alla paura del supplizio. L'amore per gli uomini lo invita ad
assumersi umilmente il loro timore della sofferenza; l'amore per il Padre lo
induce ad accettare il turbamento come un elemento del sacrificio, un oggetto da
offrire. L'ideale non è quello dell'essere serenamente chiuso in se stesso, ma
dell'uomo completamente offerto al Padre, e aperto alla solidarietà con gli
altri uomini.
Gesù
non ha vergogna di mostrare la sua paura ai tre discepoli che ha portato con sé,
Pietro, Giacomo e Giovanni. Avrebbe potuto nascondere il suo terrore. Gli eroi
delle epopee rivelano il loro intrepido coraggio, lasciando vedere che non
temono niente; molti uomini si crederebbero sminuiti agli occhi del prossimo, se
lasciassero trasparire il timore che li agita. Tale amor proprio è sconosciuto
a Cristo. Poiché il suo cuore vuole donarsi, permette ai suoi più cari amici
di assistere allo spettacolo di un'anima piena di paura, e di constatare la
sua debolezza umana; vuole così guidarli ad approfondire il mistero della sua
Passione. Offre loro quest'ultima prova della sua amicizia. Già aveva rivelato
tutto ciò che essi potevano comprendere, e ora mostra loro i suoi più
profondi sentimenti nell'imminenza del supplizio. Questa è la sua ultima
confidenza, la più sublime e la più sorprendente.
La
paura che si impadronisce del Maestro è soltanto un moto istintivo della natura
umana davanti a una dura prova? Essa sembra tradire un valore più direttamente
religioso, sacro. Quando san Marco usa altrove il verbo « essere spaventato »,
col quale indica la disposizione intima di Gesù durante l'agonia, dà a
questa espressione il significato dello stupore che si prova davanti ad
avvenimenti prodigiosi. In modo simile, la folla è presa dallo stupore osservando
Gesù dopo la trasfigurazione: come in altri tempi gli ebrei si erano
intimoriti, vedendo Mosè, sceso dal monte Sinai, ancora abbagliato dalla visione
di Dio, così il popolo è colto dallo spavento, vedendo Gesù scendere dalla
montagna dove si è appena trasfigurato (Mc. IX, 14). Dopo la resurrezione,
uno stupore di questo genere si impadronisce delle donne nel momento in cui,
entrando nel sepolcro vuoto, si trovano di fronte un giovane con una veste
bianca (Mc. XVI, 56). Questi esempi ci invitano a pensare che, durante
l'agonia, lo stupore di Cristo ha una causa soprannaturale: è la paura di
fronte al prodigio che il Padre vuole realizzare con la Passione.
Nel
Calvario che si preannuncia il Salvatore riconosce infatti il piano di
salvezza stabilito dal Padre. Sapere che dietro all'immensa sofferenza di Gesù
c'è la volontà del Padre, la rende più impressionante: la paura di Gesù è
suscitata da quella volontà onnipotente che ha deciso il sacrificio.
Alcuni
artisti cristiani hanno rappresentato la santa Trinità nella Passione così:
il Padre sta dietro alla croce e la sostiene con le braccia distese, e la
presenta al mondo mentre vi è appeso il Figlio. Nel Getsemani, Gesù vede la
croce già issata e sostenuta dal Padre, e ciò lo riempie di stupore. Se la
croce gli fosse imposta solo da forze umane, sarebbe molto meno temibile. Ma
tutta la maestà del Padre gli presenta già lo strumento del suo supplizio, il
che sconvolge il Salvatore.
Nella
traduzione latina della Volgata la frase di san Marco che concerne i sentimenti
di Gesù nella agonia dice: « Cominciò ad essere in preda allo spavento e al
disgusto » (Mc. XIV, 33). Nel testo greco, l'accenno al disgusto non è così
esplicito. Il termine usato dall'evangelista è abbastanza difficile da definire,
indica certamente un malessere, un'inquietudine, un intimo tormento. Gli si è
anche attribuito come significato originale «essere lontano da se stesso»,
essere gettato fuori di sé. Ma, più verosimilmente, il termine deriva da una
parola che significa «averne abbastanza», «essere oppresso», «essere
disgustato». Anche il padre Lagrange traduce «si trovò pieno di paura e di
sconforto ». Vi è dunque nella anima di Gesù una stanchezza morale, un
disgusto. Più che la paura, questo disgusto indica la profondità del dramma
intimo. Se Gesù, per resistere alla paura, avesse avuto il desiderio e
l'entusiasmo di offrire il suo sacrificio, non sarebbe stato così profondamente
impressionato dalla prospettiva del supplizio. Ma il desiderio che ha
manifestato prima, dicendo chiaramente di essere ansioso di ricevere il suo
battesimo di sangue, sembra scomparso. In fondo al cuore, il Salvatore conserva
la volontà di salvare il mondo, di liberare gli uomini dal peccato e di
trasmettere loro la sua vita divina. Ma per lo scopo della sua missione egli non
sente ora alcuna attrattiva. La grande opera alla quale si è dedicato su questa
terra, e che deve compiere nella sofferenza del Calvario, provoca in lui ormai
soltanto una forte ripugnanza.
Nel
Getsemani, Gesù non scorge più la bellezza del gesto che sta per compiere; pur
avendo tanto amato gli uomini e continuando ad amarli molto, non è più
allettato dall'amore ansioso di consumarsi nel dolore. Più tardi, alcuni
martiri gusteranno l'ebbrezza di donare la vita per lui e andranno con gioia
alla morte, con un fervore che non sembrerà risentire affatto il trauma del
sacrificio; avranno, anche di fronte al supplizio, il sentimento del trionfo. Ma
l'atto più generoso dell'umanità, l'eroismo del Redentore sulla croce, che
susciterà l'ammirazione in tutti i tempi, suggerisce ora al suo autore soltanto
indifferenza e ripugnanza. La sua generosità è ora più completa, poiché
l'amore si rivela perseverante, nonostante il disgusto.
La
magnificenza del progetto di salvezza è nascosta: soltanto le ombre sono
presenti allo sguardo pieno di tristezza di Gesù. Egli vede il tradimento di
Giuda, il rinnegamento di Pietro, che preludono a molti altri tradimenti, a
molti altri rinnegamenti.
Guarda
gli odi che si concentrano sulla sua persona di Salvatore, le feroci
opposizioni al suo sublime insegnamento delle Beatitudini. Da quel momento nasce
l'impressione che il suo gesto sia inutile, o peggiori il destino di alcuni:
quale scopo ha la Passione, se non riesce a convertire il ladrone malvagio e
se stimola la cattiveria degli avversari? Sulla prospettiva della redenzione si
accumulano ombre in uno spettacolo così scoraggiante da togliergli ogni
desiderio di offrirsi in sacrificio.
In
questo disgusto vi è, come nella tristezza, il mistero della riparazione. Il
peccato suscita, in colui che lo commette, un profondo disgusto di sé: e,
quando diviene la condizione abituale dell'uomo, provoca la nausea
dell'esistenza. Il peccatore è scontento in sé, perché ha voluto fare a meno
di Dio; l'orientamento della sua vita gli sembra perdere significato perché
Dio vi è assente o viene contestato. Accade che si associno peccato e gioia di
vivere; in realtà invece il disgusto accompagna il vizio. Nella sua innocenza,
Cristo vuole assumere il peso di questo disgusto provocato dal peccato.
Essendo solidale con i peccatori sente, fino alla nausea, una viva avversione
interiore contro il mondo e la sua missione.
Cristo
non avrebbe assunto fino in fondo la miseria umana se non avesse fatto
l'esperienza di tale disgusto. Ormai, grazie a lui, questo sentimento, simbolo
di una miseria che prende coscienza di sé, può ancora essere una via alla
santità; l'impressione di stanchezza, di noia universale, può divenire una preziosa
offerta apostolica. La nausea si trasforma in un mezzo di redenzione.
San
Luca, che ha taciuto sui sentimenti di Gesù al momento del suo arrivo al
Getsemani, li descrive invece nel corso della preghiera: qui la crisi dell'anima
raggiunge il suo punto culminante. Non c'è da stupirsi; abbiamo notato che la
paura del Salvatore è causata da un supplizio, dietro al quale si scorge la
volontà del Padre. Ponendosi in presenza del Padre per implorarlo, Gesù vede
l'oggetto della sua paura rivelarsi più precisamente; la minaccia gli appare
con maggiore chiarezza.
Cristo,
racconta san Luca, « entra in agonia » (Lc. XXII, 44). L'agonia non indica
qui, per la precisione, l'ultima difesa di un individuo contro la morte imminente,
gli ultimi spasimi di un corpo in cui la vita sta per spegnersi. Tuttavia
significa una condizione simile: l'angoscia che colpisce Gesù è il moto spontaneo
dell'essere umano, desideroso di sfuggire al supplizio. è la rivolta
dell'anima e del corpo alla prospettiva di sofferenze terribili e di una morte
vergognosa. Il corpo partecipa all'angoscia, poiché, secondo le precise
parole dell'evangelista, il sudore di Gesù « divenne simile a grosse gocce di
sangue che cadevano a terra».
Questo
particolare, meglio di ogni altra considerazione, ci svela l'intensità
dell'angoscia del Salvatore e l'accanimento della lotta; il sudore trasformato
in gocce di sangue indica che anche il corpo è scosso dal conflitto in cui
l'anima si dibatte. Gesù versa già il suo sangue nel Getsemani, segno che la
morte interiore precede la morte sulla croce.
L'angoscia
è la ripercussione, nell'anima e nel corpo di Cristo, dell'immensa lotta in
cui si affrontano il bene e il male. La persona tutta santa di Gesù è
certamente inaccessibile al male, non può cadere in balia della potenza di
Satana. Tuttavia non è sfuggita alla tentazione, e ha dovuto respingere le
suggestioni di Satana. Nel deserto, prima della vita pubblica, si era svolto
un grande combattimento: Gesù aveva affrontato il suo vero avversario, e aveva
resistito agli inviti del demonio.
Nel
Getsemani questa lotta si ripete, raggiungendo la fase decisiva. La solitudine
dell'agonia riflette, in modo più drammatico, la solitudine di un tempo nel
deserto. Là si erano rivolte soprattutto al pensiero di Gesù le lusinghe di
Satana: qui vengono rivolte all'interezza della sua persona e sembrano penetrare
più a fondo nel suo cuore. L'imminenza della sofferenza è l'ora della
tentazione più pericolosa.
Senza
dubbio Gesù non sente in sé il morso del peccato. Non è soggetto alla forza
misteriosa che, dall'interno, ci spinge verso il male e che si chiama concupiscenza,
un'eredità del peccato originale. Cristo non può sentire compiacimento per
quanto è male o è proibito, poiché è esente da ogni inclinazione a
trasgredire la legge divina e all'egoismo ostile a Dio.
Ma
sente crescere in sé l'inclinazione naturale a conservarsi in vita, a
proteggersi contro la sofferenza e la morte. In sé, questa inclinazione non è
cattiva, perché fa parte della natura umana, è l'istinto di difesa proprio
di ogni uomo. Tuttavia Satana vorrebbe servirsi di questa inclinazione per far
fallire il piano di salvezza, distogliendo Gesù dal cammino della Passione.
Il Cristo non aveva forse riconosciuto e smascherato Satana in Pietro che si
opponeva al suo destino doloroso? Se Satana ispirava le parole del discepolo,
piene di simpatia ben comprensibile verso Gesù, non si deve forse scoprire la
sua presenza nel Getsemani, in una tentazione che porterebbe Cristo a sottrarsi
al Calvario?
Le
espressioni usate da san Paolo riguardo alle lotte della vita cristiana e
dell'apostolato si potrebbero applicare per la prima volta alla lotta dell'agonia.
« Per quanto ci riguarda, non è contro la carne e il sangue che dobbiamo
lottare, ma contro i Principati, contro le Potenze, contro i Sovrani di questo
mondo di tenebre, contro gli spiriti maligni che abitano gli spazi celesti» (Ef.
VI, 12). La carne e il sangue si ribellano in Gesù alla minaccia della croce;
la sua natura umana, nella debolezza terrena, prova ripugnanza e freme di orrore
di fronte all'avvenimento che si prepara. Ma Cristo non deve soltanto
lottare contro la resistenza così violenta della carne; egli combatte contro
potenze superiori, che nascondono la loro azione nei moti di una natura ribelle.
E per vincere i sovrani del mondo delle tenebre, Gesù deve conquistare se
stesso. Si trova come assediato nell'intimo del suo essere e deve riuscire
vittorioso proprio contro le forze del male.
Questo
conflitto accanito lo pone in stato di angoscia e provoca un sudore di sangue.
Dobbiamo ammirare la generosità con cui Gesù accetta la lotta che redime.
Egli ha permesso a Satana di avvicinarlo e di utilizzare nella tentazione più
grave gli istinti fondamentali dell'essere umano.
Cosi
con la sua agonia il Salvatore si è avvicinato a noi notevolmente. Pur non
avendo conosciuto il peccato (e non poteva conoscerlo), ha voluto sottoporsi
pienamente alla tentazione, per partecipare al nostro destino ed alle nostre
difficoltà morali, e far l'esperienza più somigliante ai nostri intimi
conflitti. Voleva così sostenere la nostra perseveranza con la sua, attirarci
nel suo stesso trionfo.
Egli
ci rivela che il nostro spirito e il nostro cuore sono la posta in gioco di
una lotta gigantesca tra Dio e il demonio. Al seguito di Cristo e con la forza
che viene da lui, ogni uomo deve conquistare se stesse, opponendo un rifiuto a
Satana e donandosi a Dio. Deve imparare a dominarsi, non per amor proprio, ma
per amare e servire il Signore; deve farlo a prezzo di penosi conflitti, in
cui è necessario domare le ribellioni istintive della carne e dell'animo contro
un Dio che vuole prendere tutto.
Il
Maestro nell'agonia ci fa intuire quanto le nostre angosce e lotte interiori
si riflettano sul mondo. Poiché si tratta di un combattimento contro le potenze
del male, il destino dell'umanità viene coinvolto nelle nostre lotte più
segrete. è importante che noi, opponendo resistenza alla tentazione e respingendo
gli assalti o le rivendicazioni dei nostri istinti e delle nostre passioni,
contribuiamo a una sconfitta più grande di Satana nell'universo, a un ingrandimento
del regno di Dio.
In
agonia fino alla fine del mondo, Cristo continua, nel cuore dei suoi discepoli,
la lotta iniziata nel proprio cuore. In essi prova ancora ripugnanza per la
sofferenza e la morte, l'angoscia dell'essere che si ribella al dolore. Ma
assicura a loro anche la padronanza e la vittoria, dà ai cristiani la forza di
vincere l'angoscia, offrendo a Dio gli istinti ribelli e accogliendo il
dolore, che è un mezzo di espansione del Regno.
Cristo
trasforma la sua angoscia in preghiera.
Il
suo atteggiamento esteriore è caratteristico: essa esprime l'oppressione in
cui si trova l'anima di Gesù. San Marco ci dice: «Inoltratosi per un tratto,
si prostrò a terra, e pregò » (Mc. XIV, 35). San Luca è più conciso e dice
semplicemente che Gesù si inginocchia (Lc. XXII, 41). Ma, volendo inginocchiarsi
per la preghiera, Gesù cade a terra, come schiacciato dal peso della prova. è
prostrato in tutta la sua lunghezza, poiché, secondo le parole di san Matteo,
il suo viso tocca il suolo: « Cadde col viso per terra » (Mt. XXVI, 39). Di
questo atteggiamento di completo scoraggiamento, Cristo fa un atto di
preghiera e di offerta.
Il
suo viso tocca la terra, ma Gesù, invece di lasciarsi vincere dalla tristezza
e dalla stanchezza, volge lo sguardo al Padre. La sua prostrazione non si riduce
all'inerzia, all'impotenza scoraggiata, ma vuol divenire adorazione e anche
supplica. Se gli manca la forza fisica di alzare la testa, conserva la forza
morale di alzare gli occhi al cielo. Nulla è più suggestivo di questo viso
incollato a terra, che tuttavia guarda nella direzione del Padre.
San
Luca ha cura di indicare la forza misteriosa, superiore che spinge Gesù a
pregare. Egli precisa che il Maestro « è stato condotto» (Lc. XXII, 41) lontano
dai suoi discepoli, a una certa distanza. Indoviniamo (lui la partecipazione
dello Spirito Santo, che un'altra volta aveva « spinto » Gesù nel deserto (Mc.
I, 12; cfr. Mt. IV, 1; Lc. IV, 1), l'aveva condotto in un luogo per rimanere
solo nella preghiera e nella lotta contro Satana. Lo stesso Spirito, nel
Getsemani, strappa Cristo alla compagnia dei suoi amici per fargli cercare
rifugio e conforto nella contemplazione del Padre e nella preghiera. Nel momento
in cui, spontaneamente, il cuore umano sarebbe disposto ad aggrapparsi a persone
amiche presenti, per dimenticare, con la loro vicinanza, la violenza della
prova, lo Spirito Santo allontana il cuore di Gesù da quell'intimità per
metterlo in contatto più diretto con il Padre. In quella solitudine egli dovrà
affrontare per di più, in piena coscienza, il suo destino, ma ritroverà
nello stesso tempo l'appoggio più solido dell'aiuto paterno.
Il
momento del dolore perciò deve essere quello della preghiera più ardente, di
una ricerca della presenza divina. Al primo incontro, la compagnia degli
uomini sembra molto più allettante, e le consolazioni umane più accessibili e
più efficaci. In realtà, il rifugio di chi soffre è Dio e se si ha il
coraggio di seguire, come fa Gesù, l'ispirazione dello Spirito Santo che lo
guida verso la preghiera in solitudine, si attingerà una consolazione più
grande.
Mai
Gesù si è rivolto al Padre con tanto fervore come ora. Si direbbe che il
dolore lo porti ad esprimere, in una specie di parossismo causato dall'angoscia,
tutto lo slancio del suo affetto filiale. Infatti è la sola preghiera per la
quale uno degli evangelisti, san Marco, abbia usato la parola aramaica
pronunciata da Gesù: « Abba » (Mc. XIV, 36). Si può concludere
verosimilmente che questa volta la parola più familiare per dire « padre »
sia uscita dalle labbra di Gesù con un accento indimenticabile. Spaurito,
disorientato, oppresso, il Salvatore lancia con la tenerezza più smarrita il
grido del suo amore più profondo. Le due sillabe « abba » risuonano nella
notte del Getsemani come un grido di aiuto. Contengono il segreto della vita
terrena di Cristo, l'origine e lo scopo della sua Passione, la speranza del
suo trionfo. Da solo, questo appello basterebbe già a dimostrare che, nel
momento in cui ha l'impressione di essere lontano dal Padre e non riesce più a
sentire il calore della sua presenza, il Salvatore si avvicina di più a lui.
Egli ha sempre vissuto in unione col Padre e rafforza ancora tale unione
quando, nell'angoscia e nella paura, si rivolge al Padre amatissimo. Gli rivolge
il grido più appassionato del suo cuore di Figlio.
Più
tardi, i primi cristiani si compiaceranno di usare l'esclamazione di Gesù: «
Abba, Padre! » (Rom.
VIII, 15; Gal. IV, 6). Il loro
fervore sarà, come quello del Maestro, ispirato direttamente dallo Spirito
Santo. La gioia di poter chiamare Dio con il nome di Padre ha dovuto essere
meritata da Gesù. Perché quel nome « abba» possa essere pronunciato con
entusiasmo dai suoi discepoli, Cristo ha dovuto dirlo in un momento di
terribile angoscia, il grido ha dovuto essere prima santificato dalla Passione
del Maestro, reso più assoluto dal dolore. Nella voce dei cristiani che si
rivolgono al Padre celeste vi è una lontana eco del Getsemani. Il Salvatore,
che desiderava, con la sua sofferenza, comunicarci la sua figliolanza divina, ha
posto nel grido « abba » l'intensità del suo dolore, per meritare per noi il
privilegio di ripetere questo grido nella gioia.
Pietro,
Giacomo, Giovanni hanno inteso a sufficienza la preghiera dell'agonia per
riferirla a noi; infatti Gesù non ha smesso di ripetere le stesse parole.
Senza dubbio, dopo aver risvegliato la curiosità dei discepoli, questa
preghiera è sembrata a loro monotona, e questa monotonia avrà provocato la
loro sonnolenza. L'insistenza di Cristo nell'incessante iterazione è il
segno che, pur nella semplicità, essa esprime adeguatamente la sua
disposizione d'animo. Dice tutto ciò che desidera dire. Nello stato di prostrazione
in cui è immerso, non potrebbe scegliere per la sua preghiera una forma più
completa o più eloquente. E neppure sviluppare i pensieri e le intenzioni
della sua preghiera sacerdotale, come nell'Ultima Cena. Il suo dramma
interiore l'obbliga a limitarsi all'essenziale, a pregare nel modo più
semplice ed elementare.
Ricordiamo,
secondo le rudi parole di san Marco, ciò che dice Gesù: « Padre, tutto è
possibile a te; allontana da me questo calice. Tuttavia, non ciò che desidero
io, ma ciò che vuoi tu » (Mc. XIV, 36).
La
preghiera riflette esattamente la lotta che si svolge nell'anima di Cristo. Il
Salvatore ha voluto confidare al Padre questo intimo conflitto, rimettere nelle
sue mani la soluzione del problema. Poter esprimere questa angoscia è già
una liberazione per lui. La preghiera allarga in uno scambio d'amore ciò che
era prima compresso in un'unica coscienza.
Cristo
non esita a domandare che il calice di dolore gli sia risparmiato, e dimostra
così una singolare audacia; infatti sa che quel calice di dolore è il grande
mezzo di redenzione. Nell'istituzione dell'Eucaristia ha già donato ai
discepoli il calice che conteneva il sangue del suo sacrificio. Ora invece
supplica il Padre di togliere dalla sua strada quella suprema sofferenza, con
cui deve portare a termine la sua missione, e che ha annunciato più volte
come l'atto definitivo del suo amore salvifico.
L'audacia
è rivelatrice: il Signore ci insegna che possiamo sempre supplicare Dio di
risparmiarci una prova, qualunque essa sia. Possiamo pure chiedere al Signore
che allontani da noi una sofferenza chiaramente destinata al bene nostro e
altrui. Dio può disporre gli avvenimenti in modo diverso, che non nuoccia né a
noi né agli altri. Ma possiamo rivolgere tali suppliche solo se aggiungiamo,
sull'esempio del Maestro, la nostra perfetta sottomissione alla volontà divina.
La
preghiera di Gesù potrebbe essere esaudita. « Tutto è possibile a te », dice
a suo Padre. Il Padre ha previsto un piano di salvezza, ma ha il potere sovrano
e può cambiare, sconvolgere il suo progetto, fatto secondo le sue intenzioni.
Non è legato a nessuna necessità e in ogni momento la sua volontà è
interamente padrona della situazione. Potrebbe perciò predisporre un altro
progetto di salvezza che non comprenda il dramma del Calvario. La possibilità
di rivolgere qualsiasi domanda al Padre si basa sul suo potere, che nulla può
sforzare né limitare, sulla sua libertà d'azione cui niente è impossibile.
Tuttavia
Cristo non otterrà ciò che domanda. Il progetto stabilito dal Padre per la
redenzione sarà rispettato e Gesù dovrà bere tutto il calice che gli verrà
presentato. Quando, più tardi, alcuni cristiani constateranno, addolorati o
delusi, che la loro preghiera non viene esaudita, potranno ripensare che
l'implorazione così commovente di Gesù nell'agonia non ha incontrato il favore
che meritava, e apparentemente non è stata accolta. Tutte le domande che
sembrano arenarsi hanno un precedente impressionante: la supplica del
Getsemani.
Ma
la richiesta di Gesù non ha proprio avuto alcun effetto? Sarebbe strano e
incredibile, poiché egli stesso aveva dichiarato poco prima, nel momento della
resurrezione di Lazzaro: « Padre, ti ringrazio di avermi esaudito. A dire il
vero, sapevo che tu mi esaudisci sempre» (Gv. XI, 4142). Se egli è sempre
esaudito, come potrebbe non esserlo nella preghiera culminante dell'agonia,
molto più importante della preghiera pronunciata in vista della resurrezione
del suo amico?
Il
Salvatore ha dunque dovuto ricevere il frutto della sua preghiera. L'epistola
agli ebrei dichiara appunto questo: « Nei giorni della sua vita nella carne,
egli ha presentato, con un forte grido e con lacrime, implorazioni e suppliche a
chi poteva salvarlo dalla morte, ed è stato esaudito per merito della sua
pietà » Eb. V, 7). Evidentemente Gesù non è stato esaudito con l'essere
preservato dalla morte fisica. Ma è stato esaudito in modo superiore. Il
desiderio di aver salva la vita aveva ispirato la sua richiesta, ed egli riceve
soddisfazione in questo senso, perché la sua vita trionfa sulla morte. Mentre
sembra fallire nel suo scopo preciso, la preghiera di Gesù riesce a ottenere
uno scopo più elevato; invece della conservazione della vita fisica e mortale,
ottiene la vita gloriosa e immortale; testimoniando così che ogni preghiera a
cui non corrisponde il favore espressamente chiesto si vede ricompensata con
un altro dono più importante e più aderente alle aspirazioni profonde di colui
che prega.
«
Non ciò che io voglio, ma ciò che tu vuoi », sono le ultime parole della
preghiera del Maestro, che esprimono la sua più risoluta determinazione, qualunque
sia l'esito riservato alla sua domanda di allontanare il calice.
è
notevole che Gesù riconosca nel supplizio a lui destinato la volontà del
Padre, mentre, in apparenza, questo supplizio è voluto dai suoi nemici, dalla
ostilità implacabile dei capi del popolo ebreo, che si sono accordati per
seguire il consiglio di Caifa e hanno deciso di mandare a morte il predicatore,
giudicato troppo rivoluzionario, troppo pericoloso per la gente del posto.
Agli occhi di un osservatore o di uno storico, il concorso di parecchie azioni
criminali sta per scatenare la tragedia del Golgota: il tradimento di Giuda,
la condanna a morte pronunciata dal Sinedrio, la pressione esercitata sul
governatore romano e la viltà finale di costui, che permette la morte di un
innocente. Cristo conosce, meglio di tutti, le manovre e le macchinazioni che
avranno come esito la sua morte in croce, ma, invece di considerare le cause
umane del dramma, riconosce la forza sovrana del Padre, che domina gli eventi
e si serve anche di azioni criminali per realizzare il suo piano di salvezza.
Questo
sguardo fisso sul Padre aiuta a collocare esattamente il problema della
sofferenza personale. Se Gesù avesse individuato all'origine del suo supplizio
soltanto volontà umane, sarebbe stato indotto a opporsi nel modo più efficace
alle loro malvagie intenzioni. Avrebbe ostacolato, anche con la violenza, i
loro tentativi, si sarebbe sottratto alle insidie, smascherando la viltà dei
propositi. Avrebbe sventato le astuzie di Giuda e l'agguato per l'arresto.
Invece, ha scorto la volontà del Padre nel gioco delle passioni e delle
circostanze, e ha compreso che, secondo il piano di suo Padre, doveva offrire,
attraverso il dolore e la morte, una suprema testimonianza di verità e d'amore;
perciò non cercherà di sfuggire al suo destino, anzi l'accoglierà come
proveniente dall'alto.
Egli
ritiene la sofferenza che si avvicina non soltanto permessa, ma voluta dal
Padre: « Ciò che tu vuoi ». Si sottomette alla deliberazione del Padre, e non
a una semplice autorizzazione. Il pensare che Dio si limiti a non impedire
l'intervento della sofferenza, significherebbe sminuire indebitamente il ruolo
negli avvenimenti dolorosi dell'esistenza umana. L'angoscia del Calvario è
stata espressamente voluta dal Padre come sacrificio redentore, e accettata da
Gesù per lo stesso motivo.
Il
Padre ha consentito il tradimento di Giuda, l'odio dei membri del Sinedrio e di
Caifa, la condanna ingiustamente inflitta da Pilato. Egli non può volere
questi peccati, e li tollera soltanto per rispettare la libertà accordata agli
uomini, che non può ritogliere. Ma utilizza questa condotta colpevole per
raggiungere i suoi scopi e, pur non volendo la cattiveria degli avversari di
Gesù, vuole il dolore che ne sarà il risultato, e lo vuole soprattutto per il
suo valore soprannaturale di offerta riparatrice e di mezzo di salvezza.
è
pure essenziale, per i discepoli come per il Maestro, scoprire nella prova la
volontà del Padre. Coloro che fissassero tutta la loro attenzione sulle cause
visibili o umane, e non riuscissero a scorgere l'intenzione di Dio negli
avvenimenti, non sarebbero più in grado di apprezzare il significato della loro
sofferenza.
Si
intuisce che, agli occhi di Gesù, l'intenzione del Padre comporta l'amore più
grande. Dicendo « ciò che tu vuoi », egli sa fino a quale punto la volontà
di Dio, da lui chiamato « abba », sia una volontà che ama. Il terribile
supplizio assume improvvisamente un aspetto di bontà paterna. La
sollecitudine e la generosità del Padre non potrebbero essere in errore; sono
dunque presenti nel sacrificio del Calvario voluto da lui.
Da
ciò si deduce che la sottomissione di Gesù è un atteggiamento filiale: Cristo
si dispone a obbedire totalmente, come un figlio che compie la volontà del
padre. è un'obbedienza del genere che Cristo aveva chiesto ai suoi discepoli,
quando insegnava loro a pregare. Li aveva invitati a dire al loro Padre
celeste: « Che la tua volontà sia fatta sulla terra come in cielo » (Mt.
VI,10). Sapeva che l'accettazione della volontà del Padre costituisce il
sacrificio più intimo, talvolta molto difficile da offrire. Per primo accetta
completamente quella volontà, e traccia la strada dell'obbedienza che redime.
«
Pur essendo Figlio dichiara l'epistola agli Ebrei egli imparò, da ciò che
soffrì, a obbedire » (Eb. V, 8). Gli è certamente costato molto
accondiscendere, nel Getsemani, alla volontà del Padre, e restare obbediente
nel corso della Passione. Ma conviene aggiungere che se la sottomissione fu
per lui penosa, gli fu nello stesso tempo facilitata dall'essere il Figlio,
disposto compiutamente ad un amore filiale che si preoccupa soprattutto di
piacere al Padre.
La
rinuncia insita nell'obbedienza è messa in rilievo nella preghiera
dell'agonia: « Non ciò che io voglio ». Si tratta di rinunciare a ciò che un
uomo di solito persegue con il maggior accanimento, il compimento della sua
volontà. Cristo ha voluto conoscere questa rinuncia, e l'agonia del Getsemani
mostra con eloquenza che, per adeguarvisi, egli ha dovuto distaccarsi da se
stesso. Il Salvatore propone così il principio dell'obbedienza cristiana,
della rinuncia all'amor proprio e ad un'orgogliosa indipendenza, dell'annullamento
della volontà umana di fronte alla volontà divina.
Il
compenso per questa rinuncia è la dolcezza dell'amore contenuta nella
dichiarazione in cui Gesù si dice disponibile: « Ciò che tu vuoi ».
Quando
Gesù confida la sua tristezza a Pietro, Giacomo e Giovanni, domanda loro di
associarsi alla sua preghiera: « Restate qui e vegliate » (Mc. XIV, 34). Nella
versione di san Matteo, viene accentuata la partecipazione ai sentimenti del
Maestro: « Vegliate con me » (Mt. XXVI, 38).
Cristo
non ha semplicemente lo scopo di assicurarsi, in un momento critico, la
simpatia dei discepoli e di trovare in essi qualche conforto. Non è questo il
motivo della sua esortazione poiché, quando trova i discepoli addormentati,
sottolinea la ragione per la quale devono pregare: « Vegliate e pregate, per
non entrare in tentazione: lo spirito è pronto, ma la carne è debole » (Mc. XIV,
38; Mt. XXVI, 41). Come al
solito, Gesù non dà consigli ai suoi discepoli per suo vantaggio, ma per il
loro: perché vede chiaramente quanto bisogno hanno del soccorso della grazia.
La
preghiera è necessaria a chi vuole superare la tentazione. Cristo considera la
situazione dei suoi discepoli, che presto si troveranno in circostanze capaci
di mettere a dura prova il loro coraggio: nell'ora dell'arresto, essi avranno
bisogno di una grande forza morale. Se non pregano, non sapranno testimoniare
la loro fedeltà al Maestro.
Affermando
che lo spirito è pronto, Gesù allude alle buone intenzioni che animano i suoi
amici. Quando Pietro ha voluto smentire la profezia del rinnegamento e ha
solennemente promesso di restare vicino a Gesù, i suoi compagni hanno usato
lo stesso linguaggio; essi sono tutti decisi a restare fedeli. « Ma, aggiunge
Gesù, la carne è debole ». La natura umana è infatti vittima di una
profonda debolezza, che può far fallire i migliori propositi; chi si trova in
eccellenti disposizioni oggi, può rivelare domani una debolezza
incomprensibile. Così l'uomo, lasciato a se stesso, non può far conto sulla
fermezza della sua buona volontà. Il solo rimedio e la sola garanzia di
perseveranza si trovano nella preghiera. In Dio, l'uomo può trovare una forza
che lo renderà capace di respingere le tentazioni.
Gesù
tenta di far capire a Pietro la debolezza dell'uomo che non ricorre alla
preghiera e che si fida troppo del suo coraggio: « Simone, dormi? Non hai
potuto vegliare un'ora soltanto? » (Mc. XIV, 37). Il comportamento attuale di
Simone contrasta con le sue ardenti affermazioni, e preannuncia già la
debolezza che manifesterà quando rinnegherà il Maestro. Il rimprovero di Gesù
è anche un invito più pressante alla preghiera.
Ritornando
per tre volte vicino ai discepoli addormentati, Cristo ripete lo stesso
invito. Non si fa illusioni sul successo dei suoi sforzi; comprende che non
riuscirà a sottrarre i suoi amici a un sonno che le emozioni della giornata e
la vista della sua agonia hanno reso più profondo. Ma oltre ai tre amici
che ha voluto associare alla sua preghiera del Getsemani, egli rivolge la sua
esortazione a tutte le generazioni umane: «Vegliate e pregate». è l'ultima
raccomandazione di Gesù ai discepoli prima di essere da loro separato durante
la Passione, è l'ultimo consiglio lasciato loro prima di morire. Quando sta
per abbandonare i suoi amici, li assicura che saranno tanto più forti quanto
più avranno pregato, e che dalla costanza nella preghiera dipenderà il potere
di respingere le tentazioni di Satana.
Gesù
stesso attinge nella preghiera il coraggio di affrontare il supplizio. Proprio
durante la preghiera, secondo l'affermazione di san Luca (Lc. XXII, 43), un
angelo viene a confortarlo: questo è il simbolo dell'assistenza divina che ogni
preghiera garantisce. Dopo aver terminato il suo dialogo patetico con il Padre,
Gesù potrà rialzarsi per aspettare il drappello che verrà ad arrestarlo.
Quando i discepoli, indifesi perché non hanno pregato, fuggiranno sconcertati e impauriti, Cristo, che ha pregato così a lungo e con tanto ardore, affronterà i suoi avversari con fermezza incrollabile. Uscendo dal Getsemani, sopporterà tutto senza debolezza.
Cristo
nell'ora dell'arresto è completamente diverso dal Cristo in agonia: non è più
un uomo oppresso, col viso prostrato al suolo. Benché si consegni ai suoi
nemici, si mostra padrone della situazione e del suo destino; si lascia
incatenare, pur essendo pienamente sovrano.
Tuttavia,
niente ci fa pensare che le tenebre addensatesi nella sua anima si siano
dissipate, né che la desolazione sia scomparsa. Poiché sulla croce Gesù
esprimerà il dolore di essere abbandonato dal Padre, è verosimile che quel
sentimento doloroso sia continuato durante l'intera Passione.
Ma,
pur intimamente afflitto, Cristo ha ritrovato una sicurezza con cui domina tanto
la sua angoscia interiore quanto il dramma finale della sua vita terrena. La
sua vita pubblica era stata caratterizzata da una grande serenità tra ogni
sorta di controversie e opposizioni. E ancora la serenità illumina la scena
dell'arresto.
Il
cambiamento di stato d'animo contribuisce a svelarci la profonda psicologia
umana del Salvatore. Pur essendo Figlio di Dio, che gode dell'assoluta perfezione
divina, ha conosciuto nella natura umana il carattere mutevole proprio dell'uomo
e l'incostanza delle impressioni e dei sentimenti. Nel Getsemani, è in preda a
una crisi che assorbe tutte le sue forze e scuote il suo essere; vedendolo in
tale abbattimento, si potrebbe concludere che è completamente sopraffatto
dagli eventi. Subito dopo, si presenta sorprendentemente calmo, dominando con
lo sguardo quegli stessi avvenimenti, e con una saldezza morale che non si
lascia turbare dall'arrivo dei suoi avversari armati. Questo succedersi di
diversi stati d'animo è proprio della vita umana; Gesù ne ha fatto l'esperienza,
avendo voluto assumere una esistenza umana con la sua fragilità e i suoi
limiti.
D'altra
parte, il cambiamento di stato d'animo di Cristo ci fa intuire che anche
l'incostanza della psicologia umana è guidata nella sua evoluzione da Dio. Il
Salvatore ha sperimentato l'angoscia nel Getsemani, perché la crisi dell'agonia
aveva il suo posto nel piano di redenzione. Il Padre, che aveva diretto la
missione terrena di Gesù, continua a guidarla nell'ora della Passione; non ha
soltanto orientato i passi di suo Figlio verso l'Orto degli Ulivi, ma ha
spinto la sua anima nelle tenebre della tristezza e della paura. Poi l'ha fatto
uscire da quel momento di crisi.
Così
Cristo ha ricevuto dal Padre, prima, la prova dell'angoscia e dello smarrimento,
poi una consolante fermezza e imperturbabilità. Abbiamo notato che quel
conforto gli è stato accordato grazie alla sua preghiera. Ciascuno dei due
stati d'animo era opportuno nel suo momento, appropriato alle circostanze.
Durante la crisi, si potrebbe pensare che l'oppressione durerà senza fine e che
non si ritroverà mai più la serenità e la padronanza di sé; ma secondo il
piano divino, la crisi interiore non si prolunga oltre il limite di
sopportazione e di convenienza al bene spirituale dell'individuo, e può
scomparire con la stessa subitaneità con cui è apparsa. C'è una Provvidenza
che traccia l'itinerario segreto delle prove e delle consolazioni intime.
Ogni
stato d'animo ha il suo valore soprannaturale e induce l'uomo a esprimere un
aspetto più particolare del dono di sé, dell'offerta totale. L'angoscia del
Getsemani, con il senso di vuoto e di paura, ha indotto Gesù ad aggrapparsi
con più energia al Padre; e gli ha permesso un abbandono più generoso alla sua
volontà. La fermezza, testimoniata dal Salvatore dal momento dell'arresto,
contribuisce a un'accettazione più coraggiosa del sacrificio. Tutte le sfumature
dell'amore e dell'offerta vengono meglio poste in evidenza attraverso i diversi
stati d'animo.
Quando
per la terza volta, dopo la preghiera piena d'angoscia e d'abbandono, il Maestro
ritorna presso i suoi discepoli, non ripete più la pressante raccomandazione
di vegliare e pregare con lui. Dice invece: « Dormite pure e riposate! » (Mc.
XIV, 41; Mt. XXVI, 45), parole in cui il sorriso si fonde con la pietà. Gesù
sa bene che non è più tempo di dormire e che i suoi discepoli riceveranno
ben presto una forte scossa. Il suo modo ironico di consigliare loro il riposo
contrasta con il tono supplichevole con cui aveva prima richiesto di unirsi alla
sua preghiera e mostra che già Cristo ha superato la sua crisi spirituale.
L'ora
suprema la e considera con un certo umorismo la tendenza invincibile al sonno
manifestata dai suoi amici nell'ora più dolorosa della sua esistenza.
L'emozione tragica dell'agonia è finita; il Maestro guarda con superiorità e
maggior distacco il pericolo che si sta avvicinando.
«Basta
così», aggiunge, usando un termine che significa «congedare». Gesù congeda
i suoi discepoli: ormai non li solleciterà più a partecipare alla sua prova,
mentre durante l'agonia li aveva esortati con molta insistenza a unirsi alla sua
preghiera. Con questo fa prevedere l'atteggiamento che adotterà fra poco:
nel momento in cui verrà arrestato, invece di impegnare i suoi discepoli a
restare con lui, proteggerà la loro fuga. Il periodo della vita pubblica, in
cui i discepoli si accompagnavano al Maestro per ricevere il suo insegnamento
e assimilare la sua mentalità, è finito. Per quanto riguarda la Passione,
Gesù sa che, secondo il progetto del Padre, deve affrontarla da solo.
«
L'ora è venuta », afferma. L'ora dell'arresto non è come le altre, è 1'«
ora » per eccellenza, misteriosamente stabilita dalla volontà paterna, in
cui verrà compiuto il dramma della redenzione. Anche qui, il contrasto con la
preghiera dell'agonia è commovente. Gesù aveva chiesto al Padre che, se
fosse possibile, l'ora del dolore venisse allontanata da lui (Mc. XIV, 35).
Ora egli stesso annuncia che quell'ora suprema è suonata, e l'annuncia senza
il tremore che lo agitava poco prima al solo pensarci, quasi come se facesse
parte del felice esito della sua preghiera. Per quanto abbia desiderato
esattamente il contrario di ciò che accade, trova la forza di bene accogliere
l'ora che avrebbe volentieri evitato, e da questo punto di vista viene esaudito.
Quanti uomini, dopo di lui, domanderanno che venga loro risparmiata una prova, e
otterranno non la sua soppressione, ma il coraggio di sopportarla degnamente!
Cristo
sembra in questo momento ritornare in familiarità con l'« ora ». Prima
della ribellione e della paura nell'agonia, questa « ora » era stata in qualche
modo la compagna della sua vita pubblica. Molte volte ne aveva previsto
l'approssimarsi, e vi aveva individuato, insieme a una grande sofferenza, l'ora
della riunione definitiva con il Padre (Gv. XIII, 1), e l'ora della gloria: «
L'ora in cui il Figlio dell'uomo deve essere glorificato » (Gv. XII, 23; XVII,
1). Sarebbe l'ora dell'instaurazione del Regno: « L'ora in cui i morti
sentiranno la voce del Figlio di Dio », e « l'ora in cui i veri adoratori
adoreranno il Padre in spirito e verità » (Gv. V, 25; IV, 23).
Tale
prospettiva era stata offuscata, nel Getsemani, dall'ombra della tristezza
interiore e dalla sua preghiera angosciata; Gesù distingueva soltanto l'ora
di un terribile supplizio, che avrebbe desiderato allontanare. Nel momento
dell'arresto, di nuovo l'ora ricompare nella prospettiva solita e riprende il
suo totale significato, che la rende accettabile e perfino cara a Gesù. E'
l'ora in cui sarà donata la salvezza al mondo e verrà instaurato il regno del
Figlio dell'uomo sui vivi e sui morti. Non si nota forse il tono sicuro con
cui Gesù pronuncia le parole: « L'ora è giunta », come se esse dovessero
esprimere la sua sovranità, l'inaugurazione del suo regno messianico?
è
suonata l'ora di una sovranità che vuole penetrare fra gli uomini con l'umiltà
dell'amore. Gesù aggiunge, per precisare il significato di quell'ora: « Ecco
che il Figlio dell'uomo verrà consegnato nelle mani dei peccatori ».
Nel
senso più immediato e più ovvio, la frase significa che Cristo sta per
essere tradito, consegnato dal traditore nelle mani di coloro che, con intenzione
colpevole, attentano alla sua vita e stanno per commettere il peccato più
decisivo. Ma le parole espressamente vaghe «nelle mani dei peccatori» ci fanno
supporre che la frase pronunciata da Gesù implichi un significato più vasto.
Il Figlio dell'uomo sta per essere posto nelle mani dell'umanità peccatrice,
di cui gli ebrei colpevoli possono essere considerati i rappresentanti. Dietro
l'azione visibile di Giuda che lo tradisce e lo consegna ai capi del popolo
ebreo, c'è, più profonda e più invisibile, l'azione del Padre che consegna
suo Figlio all'umanità colpevole.
Così
si può riconoscere nelle parole di Gesù una definizione della redenzione. Il
Figlio dell'uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori, perché deve assumersi
le conseguenze del peccato dell'umanità; con il peccato gli uomini hanno
assunto la responsabilità di sottoporre il Figlio di Dio all'umiliazione della
croce.
Occorre
richiamare alla mente come l'Antico Testamento ci descrive l'uomo peccatore
consegnato nella mano vendicatrice di Dio: le disgrazie del popolo ebreo vi
appaiono come un castigo divino, e le minacce degli oracoli profetici annunciano
le terribili sanzioni ordinate da un Dio offeso. Il dramma della redenzione
presenta ora l'immagine inversa: non è più l'uomo colpevole ad essere
consegnato nella mano vendicatrice di Dio, ma è Dio stesso che viene
consegnato nelle mani colpevoli degli uomini. Tutto l'amore che ispira la
redenzione si esprime in questo rovesciamento di situazione: Dio, che potrebbe
vendicarsi del peccato, diventa prigioniero dei peccatori. La scena dell'arresto
esprimerà bene questa verità: lasciandosi prendere e legare dai suoi nemici,
Cristo compie l'atto di donarsi ai peccatori, nell'umiltà dell'amore che si
sottomette agli altri. è veramente garanzia della nostra liberazione.
Il
rovesciamento di situazione chiarisce pure il significato della sofferenza. Gli
uomini hanno spesso l'impressione che Dio infligga loro il dolore in seguito
alle colpe commesse. Tale impressione non è falsa, poiché è vero che la
sofferenza è mandata da Dio e appartiene al piano divino; ed è anche vero che
è in relazione con i peccati. Ma non è una punizione: il Figlio dell'uomo è
consegnato nelle mani dei peccatori, non per essere castigato, ma per offrire
una riparazione dei peccati. In realtà sono gli uomini che infliggono a Dio
la sofferenza; essi commettono il peccato, e la loro volontà peccatrice
provoca la necessità di una riparazione, che Dio stesso ha voluto compiere a
nome nostro.
Da
parte di Dio, c'è soltanto amore; amore che rispetta la volontà umana
perfino nelle sue aberrazioni, amore che accetta anche gli effetti nefasti
dell'offesa commessa. Tale prospettiva ci invita a completare o a modificare
le nostre vedute troppo superficiali riguardo al significato delle nostre prove.
I nostri peccati meritano una sanzione; il male commesso dall'umanità reclama
un castigo. Ma il peso della sofferenza meritata dai peccatori è stato
sopportato dal Figlio di Dio, come omaggio di redenzione. Ormai non è più
l'uomo che soffre a causa di Dio; è piuttosto Dio che soffre a causa degli
uomini e invita gli uomini ad unirsi al suo sacrificio. A torto pensiamo di
avere qualche ragione per rimproverare Dio del dolore che ci fa incontrare
nella vita; piuttosto, Dio legittimamente potrebbe castigare la nostra colpevolezza,
che gli è costata la sofferenza della croce, ma preferisce invitarci a
condividere questa sofferenza da lui nobilitata e divinizzata.
Il
Figlio dell'uomo consegnato ai peccatori è Dio che viene a portare il peso
delle nostre colpe. è vero che Gesù non parla del Figlio di Dio consegnato ai
peccatori, ma del Figlio dell'uomo, usando, per designarsi, un'espressione a
lui abituale con cui vuol mettere l'accento sulla sua natura umana. Tuttavia,
questa espressione implica anche la sua natura divina. Era stata già usata
infatti nella profezia di Daniele per indicare un essere misterioso di origine
celeste, destinato a ricevere la sovranità divina. Nel linguaggio
contemporaneo di Cristo, come dimostra il libro di Enoch, essa era riferita a un
Messia divino, preesistente alla creazione del mondo, compartecipe dell'onnipotenza
di Dio sull'universo, a un salvatore in cui tutti devono sperare e che tutti
devono adorare. Quando Gesù chiama se stesso col nome di « Figlio dell'uomo »,
vuole dichiarare non soltanto la sua essenza umana, ma anche la sua origine
celeste e la sua sovranità divina, e così afferma che è Dio.
Il
Figlio dell'uomo consegnato nelle mani dei peccatori è dunque un personaggio
divino; il Maestro ha voluto suggerire il mistero di Dio che si sottopone alle
conseguenze del peccato, alla volontà dei peccatori. Dio appare la grande
vittima del peccato degli uomini.
Nel
Figlio dell'uomo, insieme con Dio, anche l'uomo ideale è consegnato ai
peccatori. Cristo rappresenta infatti la perfezione umana, l'uomo in tutta
la bellezza della sua natura e del suo destino, l'uomo amico di Dio. Il
peccato ferisce e cerca di distruggere proprio questa perfezione; non è
soltanto un'offesa a Dio, ma un oltraggio alla dignità umana.
Gesù
vuole dunque subire, nella Passione, anche i rovinosi effetti del peccato
nell'uomo, per far trionfare l'umanità ideale che egli realizza nella sua persona.
«Alzatevi!
»
Gesù
ha appena avuto il tempo di dire ai discepoli: « Dormite e riposatevi », che
rivolge loro un ordine contrario: « Alzatevi! Andiamo! Ecco: colui che mi
tradisce è vicino » (Mc. XIV, 42).
I
discepoli, assonnati, non chiedevano altro che di poter dormire ancora. « I
loro occhi erano appesantiti dal sonno », ci dice san Marco (Mc. XIV, 40; Mt.
XXVI, 43); quando Gesù era venuto a disturbarli per la seconda volta, non
avevano saputo rispondergli. Così non hanno notato i soldati avvicinarsi con le
fiaccole.
Vedendoli,
Gesù dà l'allarme. A dire il vero, il suo sguardo penetra ben più in
profondità. Infatti egli afferma: «Colui che mi tradisce è vicino». Dopo
aver detto a Giuda, nel momento in cui quest'ultimo aveva abbandonato l'Ultima
Cena per immergersi nella notte: «Ciò che vuoi fare, fallo presto» (Gv.
XIII, 27), Gesù non aveva perso di vista il discepolo ribelle. Con uno
sguardo più penetrante di quello umano, lo vedeva avvicinarsi nelle tenebre. La
sua allusione a Giuda mostra quanto egli domini il corso degli avvenimenti.
Quanto più i discepoli sono inconsapevoli, tanto più Gesù rivela la sua perfetta
conoscenza del dramma che sta per svolgersi. Il Salvatore non sarà sorpreso dai
fatti imminenti: Giuda e i soldati del seguito non giungeranno inaspettati.
Gesù li attende da molto tempo. Preannunciando l'arrivo del traditore, egli
ci offre un primo elemento che attesta la sua sovranità nella Passione. Un
secondo elemento si trova nella parola che risuona come un ordine pressante: «Alzatevi!
». Per l'ultima volta Cristo guida i discepoli, agisce da Maestro. Ripete, con
maggior premura, le parole già pronunciate alla fine della cena pasquale: «Alzatevi!
Andiamo via da qui! » (Gv. XIV, 31). Allora, aveva avuto il tempo di spiegarsi
meglio: « Non avrò più l'occasione di intrattenermi a lungo con voi, poiché
viene il principe del mondo; su di me egli non ha alcun potere, ma è necessario
che il mondo sappia che amo il Padre e che agisco secondo l'ordine che il
Padre mi ha dato » (Gv. XIV, 30). Perciò Cristo aveva detto, durante l'Ultima
Cena: « Alzatevi! », con la certezza di riuscire vincitore sul principe del
mondo, e di vincerlo col suo amore per il Padre.
Si
può intuire che in questo momento Gesù è ispirato da sentimenti simili. Ora
sta per incontrare Satana, il principe del mondo, per affrontarlo nella lotta
decisiva, in cui riuscirà vittorioso. Con l'ordine: «Alzatevil » si propone
di mettere i discepoli all'erta, di prepararli ad affrontare il principe del
mondo. Questa è un'esortazione a predisporsi alla lotta, con tutte le forze
morali necessarie per resistere in un grande pericolo, ma con la fiducia nella
vittoria.
Questo
richiamo non vale anche per i secoli futuri, destinato com'è a risvegliare
non soltanto i discepoli nel Getsemani, ma gli esseri inclini ad assopirsi
nella incessante lotta che si ripropone nell'umanità tra il Salvatore e il
principe del mondo? Il comando: « Alzatevi! » continuerà a risuonare in terra
fino al completo trionfo di Cristo alla fine dei tempi.
Di
fronte alla condotta di Giuda è difficile non sentire ripugnanza e orrore. Ci
si stupisce che il discepolo, dopo aver così a lungo dissimulato i suoi veri
sentimenti, non esiti a guidare la truppa, pronta ad arrestare il suo Maestro.
Egli svela improvvisamente il suo gioco con un'audacia che fa fremere. Si direbbe
che, entrato Satana in lui, nel momento in cui Gesù gli offre il boccone, Giuda
faccia tacere facilmente gli ultimi scrupoli di coscienza e ponga in opera,
con grande rapidità, il tradimento progettato. Il demonio lo dirige con facilità
e decisione. L'ordine dato da Giuda ai soldati ha un suono odioso: «Afferratelo
e tenetelo saldamente per condurlo via » (Mc. XIV, 44). Ha paura che Gesù
sfugga ai suoi avversari, e insiste perché gli si renda impossibile la
fuga; con una persona che ha fatto tanti miracoli occorrono tutte le
precauzioni. Se il tentativo di arresto fallirà, i trenta denari, che il
traditore sogna da molto tempo e crede già di possedere, svaniranno. Perché
egli possa riscuotere quel denaro, occorre trattenere saldamente il suo Maestro.
Il
segnale scelto per indicare Gesù alla truppa non avrebbe potuto essere un
simbolo migliore dell'ipocrisia: «Colui che bacerò è Gesù» (Mc. XIV,
44; Mt. XXVI, 48). Si resta
confusi davanti a tale cinismo. Giuda non avrebbe potuto pensare a un altro
segnale? La sua audacia nel servirsi proprio di questo segno, che esprime un
affetto speciale, ci rivela quanto la sua anima doveva essersi staccata dal Maestro
e indurita nell'indifferenza verso di lui. Niente aveva più valore per Giuda
all'infuori del denaro.
Con
passo deciso, giunto presso il gruppo dei discepoli, Giuda si dirige subito
verso Gesù. Lo saluta nel modo solito e più naturale: «Salve, Maestro».
Queste parole sarebbero bastate a indicare l'identità di Gesù. Ma Giuda
aggiunge il gesto convenuto; dà un bacio al Maestro. Secondo il Vangelo, questo
non è un bacio qualunque, freddo e formale: «Egli lo baciò teneramente»,
raccontano san Marco e san Matteo (Mc. XIV,
45; Mt. XXVI, 49). Più questo
bacio è insistente e prolungato, meglio si compie la sua funzione di segno, a
indicare chiaramente agli occhi della truppa chi è l'uomo di cui deve
impadronirsi. Il gesto di Giuda resterà per sempre il simbolo del tradimento;
ma è anche l'esempio di una delle più mostruose deviazioni della condotta
umana, il mercanteggiamento dell'amore, la vendita dell'affetto o dei segni
dell'affetto. Da questo punto di vista, il bacio del traditore non è un fatto
raro e isolato; è il simbolo del peccato che disonora troppo spesso l'umanità.
Che
cosa avviene nell'animo del Salvatore quando si trova di fronte a Giuda? Cristo
deve soffrire acutamente per l'affronto che gli viene fatto. è veramente un
affronto: « Uno dei dodici » in persona viene verso il Maestro per
consegnarlo ai nemici. Tutti i discepoli devono aver provato vergogna,
specialmente colui che aveva chiamato Giuda alla dignità di apostolo.
Il
tradimento è certo la più cocente sconfitta subita dal Salvatore. Se
l'insuccesso presso le folle e presso i capi del popolo ebreo è penoso per lui,
si indovina che l'insuccesso nel cuore di Giuda gli è stato ancora più
doloroso. Si tratta di un discepolo che il Maestro ha personalmente scelto, ha
accolto tra i suoi amici e con il quale ha condiviso i misteri del regno di Dio,
le grandi verità della sua dottrina e gli scopi della sua missione apostolica.
Cristo aveva posto molte speranze in Giuda e aveva fiducia in lui; non è
riuscito a serbarlo fedele e ad arrestarlo sulla china fatale. La sofferenza del
Maestro deve essere tanto più viva in quanto egli ha dimostrato al discepolo
ribelle più amore, più zelo nel salvarlo.
Sarebbe
comprensibile che Cristo non avesse permesso a Giuda di dargli un bacio
ipocrita. Egli lo lascia fare, vuole rispettare fino in fondo la libertà del
discepolo, anzi, si presta a quel gesto di amicizia. In questo momento applica
il precetto: «Io vi dico di non tener testa al cattivo; al contrario, se
qualcuno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, offrigli anche l'altra» (Mt.
V, 39). Il bacio in questa circostanza è peggiore di uno schiaffo. Ma Gesù ha
una ragione ancora più forte per lasciarsi baciare, ed è che egli non ha mai
cessato di amare Giuda. Non soltanto si presta a quel bacio, ma si offre
sinceramente al suo discepolo e vorrebbe rinnovargli l'offerta della sua
amicizia.
L'intenzione
amichevole è espressa bene nelle parole che san Matteo ci riferisce: «Amico,
perché sei qui? » (Mt. XXVI, 50). San Luca riferisce la stessa frase con
parole più chiare: « Giuda, tu tradisci il Figlio dell'uomo con un bacio! » (Lc.
XXII, 48). Per l'ultima volta il Maestro dimostra a Giuda che non si lascia
ingannare; per l'ultima volta cerca di provocare in lui un senso di orrore per
ciò che ha in mente di fare. Più che un rimprovero, questo è stupore
doloroso per una amicizia schernita, che però vorrebbe, con parole commosse e
benevole, riconquistare un cuore divenuto ormai estraneo.
Il
Maestro si comporta dunque, in quest'ultimo scorcio di vita che il traditore gli
lascia, come un redentore ansioso di salvarlo. Il cuore di Gesù resta aperto
e pieno d'amore; sarebbe bastato che Giuda provasse un po' di rimorso, perché
il bacio di tradimento si mutasse in bacio di riconciliazione e di perdono.
Forse
siamo troppo inclini a vedere nel bacio di Giuda soltanto il tradimento, e non
riconosciamo abbastanza l'atto di Cristo che si lascia baciare, e che manifesta
un eroismo più grande dell'ipocrisia del suo discepolo. Quel bacio resta
certamente una dimostrazione del grado di aridità cui il desiderio del denaro
può condurre un uomo, e del comportamento mostruoso cui può progressivamente
giungere chi devia dalla retta strada. Ma indica nello stesso tempo
l'instancabile bontà di Gesù, che nemmeno il più grande delitto saprebbe
scoraggiare: è la bontà che non respinge Giuda, non lo opprime di rimproveri
come avrebbe meritato, non lo smaschera in pubblico. Questa bontà non riesce a
toccare il cuore del traditore, ma ottiene una vittoria, il cui beneficio si
riverserà su tutto il mondo, la vittoria dell'amore, che la più crudele
perfidia non ha potuto sminuire.
Il
bacio di Giuda fu inutile alla truppa che l'accompagnava, perché Gesù
stesso, di sua propria iniziativa, si presentò dicendo: « Chi cercate? ».
Quando udì la risposta: « Gesù di Nazareth », disse subito: « Sono io » (Gv.
XVIII, 45).
Ciò
mostra come Cristo si comporti da padrone sovrano del suo destino. Non è Giuda,
guidato da Satana, che lo prende in trappola. è Gesù, che dirige in qualche
modo lo svolgimento del suo arresto.
«
Sono io »
«
Conoscendo dice san Giovanni tutto ciò che stava per accadergli » (Gv.
XVIII, 4), si presenta spontaneamente ai suoi nemici.
L'evangelista
racconta un episodio che conferma e chiarisce meglio la sovranità del Maestro:
« Quando ebbe detto loro " Sono io ", essi indietreggiarono e caddero
a terra. Gesù domandò di nuovo: "Chi cercate? ", essi risposero:
" Gesù di Nazareth ", e Gesù di rimando: " Vi ho detto che sono
io... " » (Gv. XVIII, 68). Ci fu un vero miracolo? Sarebbe sorprendente,
poiché Gesù non ha mai operato miracoli per mettere altri uomini ai suoi
piedi e ottenere da loro un omaggio forzato; egli ancora meno desidera stupire
con prodigi coloro che vengono ad arrestarlo, perché, inoltrandosi nella via
della Passione, rinuncia alla strada più facile delle manifestazioni
prodigiose. Tuttavia san Giovanni ha visto nell'episodio un segno
straordinario della potenza di Cristo.
Infatti,
camminando coraggiosamente incontro alla truppa, Gesù la impressiona.
Pronuncia con tale fermezza le parole « sono io », che le prime file indietreggiarono.
Quegli uomini, che si sono armati per impadronirsi di Gesù di Nazareth, sono
sorpresi di vedere lui in persona venire verso di loro, dichiarando la sua
identità. Fanno istintivamente un passo indietro, e questo movimento ne fa
cadere alcuni. Senza aver bisogno di compiere un miracolo, Gesù sovrasta, con
la sua fermezza e maestà, coloro che vogliono prenderlo; il suo atteggiamento
risoluto per un istante li confonde.
Questo
non è un prodigio, ma un segno; l'evangelista vi ha visto un'indicazione
della potenza divina di Gesù. La prestanza naturale del Maestro e la sua
andatura risoluta, rivelano una misteriosa superiorità, dotata di un fascino
irresistibile. Nel momento dell'arresto, colui che sta per essere fatto prigioniero
dimostra di essere Dio.
In
un certo modo, quasi lo dichiara. L'affermazione «sono io» vuole dapprima
fornire una risposta a coloro che cercano Gesù di Nazareth. Ma questa
dichiarazione di identità sembra avere un significato più profondo. Le due
parole greche corrispondenti possono anche tradursi con «io sono»; parole che
costituiscono la definizione di Dio nel Vecchio Testamento. Nella sua
rivelazione a Mosè, Yahvé si era chiamato « io sono » (Es. III, 14). Gesù
aveva assunto per sé quel nome divino: « In verità, in verità vi dico,
prima che Abramo nascesse, io sono » (Gv. VIII, 58; cfr. VIII, 2428; XIII,
19). Nel momento in cui si consegna ai nemici, nella risposta: « Sono Io »,
non risuona forse un'altra attestazione della sua divinità: « Io sono »? Gli
avversari non potrebbero capire l'allusione; ma l'autorità divina del Salvatore
che traspare nelle parole « sono io » li soggioga. Cadere a terra è un
simbolo: quegli uomini sono posti loro malgrado in atteggiamento di adorazione.
Nella paura momentanea che li fa indietreggiare e cadere gli uni sugli altri,
non si rendono conto di ciò che avviene loro; tuttavia, obiettivamente,
indipendentemente dalle loro intenzioni, testimoniano la potenza sovrana di
Cristo.
Si
potrebbe dire che dietro le circostanze e la parte svolta dagli uomini in
questo incontro c'è una liturgia, di cui Gesù è l'iniziatore e di cui i suoi
discepoli potranno capire il significato solo più tardi. Il Maestro pronuncia
le sacre parole « io sono », e coloro che vengono verso di lui subito si
prostrano per terra.
Ancora
sotto quest'aspetto, l'arresto sembra rovesciare la situazione dell'agonia.
Nella sua supplica al Padre, Gesù era caduto a terra sotto il peso della prova
che lo minacciava; qui invece i nemici, quando si avvicinano minacciosi,
cadono a terra. Questo doppio quadro suggerisce già quello della Passione e
della resurrezione. Il Cristo oppresso dalla sofferenza diventa il Cristo
trionfante. Al momento dell'arresto Gesù lascia intravedere il suo trionfo, e
fa sì che, per mezzo dei suoi nemici, si avveri in anticipo la profezia, che
egli aveva loro riferito: « Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo,
allora riconoscerete che sono io » (Gv. VIII, 28). Fa loro capire il suo «
io sono », mostrandone la forza nascosta.
Quando
Gesù risponde per la seconda volta «sono io », i soldati caduti si rialzano
e vogliono mettere le mani su di lui. In questo momento Pietro sguaina la spada,
colpisce Malco, un servo del gran sacerdote, e gli taglia l'orecchio destro. La
decisione, presa dal focoso discepolo, di seguire Gesù fino alla morte, è così
messa in pratica: Pietro è pronto a perdere la vita in combattimento per
salvare il suo Maestro.
L'intervento
di Gesù non è meno rapido. « Rimetti la tua spada nel fodero » (Gv. XVIII,
11; Mt. XXVI, 52), dice a Pietro. L'ingiunzione è fatta al capo dei discepoli,
da lui scelto come primo pastore della Chiesa. Oltre che alla persona di Pietro,
quest'ordine è rivolto a tutti i suoi successori; indica il comportamento
richiesto ai capi della comunità cristiana di fronte ai persecutori. è loro
proibito di rispondere alla violenza con la violenza. I futuri responsabili del
destino della Chiesa non potranno mai sguainare la spada per proteggerla o per
farla progredire. Nessun pretesto potrà essere invocato per l'uso delle armi,
dal momento che Pietro aveva la migliore delle ragioni: difendere Gesù
stesso, e il suo gesto è stato condannato dal Maestro. La più santa delle intenzioni
non basta a rendere legittimo, per la Chiesa, il ricorso alla spada.
Le
parole « rimetti la tua spada nel fodero » non si sono perdute nella storia
della Chiesa. Esse hanno orientato la condotta dei cristiani nel corso delle
persecuzioni dei primi secoli. Impedendo ogni resistenza armata, hanno
condotto molti di essi al martirio. L'eroismo dei discepoli deve essere, come
quello del Maestro, un eroismo non d'imprese militari, ma di dolcezza
caritatevole.
All'ordine
dato a Pietro Gesù aggiunge il motivo: « Perché tutti coloro che impugnano
la spada periranno di spada » (Mt. XXVI, 52). Questo principio sembrerebbe
adatto alla situazione di Pietro e dei discepoli, poiché, se avessero voluto
resistere con la forza alla truppa venuta per arrestare Gesù, avrebbero
rischiato di farsi massacrare. Ma questa affermazione riveste un valore più
universale: non significa che tutti coloro che ricorreranno alle armi morranno
nella lotta intrapresa; significa piuttosto che l'uso della violenza è sempre
un'opera di morte, e che tutti coloro che vi si presteranno accentueranno il
dominio della morte sull'umanità e di conseguenza su loro stessi. Impugnare
la spada vuol dire rinunciare all'amore e a quanto esiste di più nobile
nell'uomo; ed è anche fatalmente morire a causa della spada, svilire l'umanità.
Qui
vi è pure una condanna della guerra. Gesù non vuole soltanto tracciare per il
capo dei suoi discepoli la linea di condotta che dovrà essere quella della
Chiesa. La giustifica con una considerazione generale: l'ideale per l'umanità
è di giungere a eliminare le lotte violente tra gli uomini e a bandire la
guerra. La Chiesa deve integralmente metterlo in pratica, fin dall'inizio della
sua esistenza. I discepoli di Gesù devono rinunciare alla violenza, non
opporre resistenza ai persecutori, perché si sviluppi nell'umanità l'amore,
che metta al bando finalmente la guerra e la violenza.
Inoltre
Cristo ricorda a Pietro ciò che gli ha già insegnato: la Passione è parte del
piano di salvezza deciso dal Padre celeste, e non bisogna voler sottrarvisi.
« Pensi tu forse che io non possa chiedere aiuto a mio Padre, che mi fornirebbe
subito più di dodici legioni di angeli? Come dunque si compirebbero le
Scritture, secondo le quali deve avvenire così? » (Mt. XXVI, 5354). « Non
devo bere il calice che il Padre mi ha offerto? » (Gv. XVIII, 11).
Gesù
sottolinea che si lascia arrestare non per debolezza, ma per obbedienza al
Padre. Il maggior potere non è di chi usa la violenza, ma di chi se ne astiene.
Occorre maggior forza d'animo per obbedire che per combattere; occorre maggior
energia per rinunciare che per contrattaccare. Così l'atteggiamento
pacifico di Cristo si accorda con la sua onnipotenza.
Il
Maestro spinge questo atteggiamento pacifico fino al limite, poiché subito dà
prova della sua sovranità, guarendo il servitore ferito. è il suo ultimo miracolo
prima della resurrezione: miracolo che dimostra una bontà particolare verso i
nemici. Gesù non vuole che il suo arresto porti danno a uno degli uomini
della truppa; riparando il male commesso dalla spada di Pietro, mostra che
agli avversari non bisogna solamente perdonare, ma fare del bene.
Gesù
rivela anche il significato profondo della potenza divina, che vuole
svilupparsi soltanto nella direzione dell'amore. Cristo rifiuta di fare un
miracolo per sfuggire a coloro che vengono per impadronirsi di lui, ma ne fa uno
per permettere a Malco e ai suoi compagni di arrestarlo, senza timore e senza
pericoli.
Ormai
il compito degli uomini mandati per arrestare Gesù diventa uno dei più
facili. è sufficiente che essi circondino colui che ha detto: « Sono io », e
lo facciano prigioniero. « Allora racconta san Giovanni la coorte e il
tribuno e le guardie dei giudei afferrarono Gesù e lo legarono » (Gv. XVIII,
12). Per precauzione, i capi ebrei avevano chiesto che dei soldati romani
accompagnassero la truppa, per prestarle man forte in caso di resistenza. Tutto
questo spiegamento di forze armate assume un tono ridicolo, in confronto alla
facilità con la quale avviene l'arresto. Mentre Cristo testimonia una potenza
autentica ma celata, i suoi nemici esercitano una potenza inutile, inadatta
alla situazione.
Gesù
stesso attira l'attenzione della turba sull'inutilità di tale mobilitazione:
« Vi siete messi in marcia con spade e bastoni per catturarmi come se fossi un
ladrone. Ogni giorno stavo seduto nel tempio, a insegnare, e non mi avete preso
» (Mt. XXVI, 55). Questi uomini sarebbero stati incapaci di giustificare il
loro modo d'agire; Cristo ne indica la vera ragione: la Sacra Scrittura deve
avverarsi, il progetto divino deve divenire realtà. Quale profezia si
realizza a questo punto? Il libro di Isaia annunciava che il servo sofferente
sarebbe stato considerato come un malfattore; Gesù arrestato come un ladrone
sembra avverare la profezia.
Secondo
san Luca, Cristo aggiunge: « è la vostra ora, e la potenza delle tenebre » (Lc.
XXII, 53). Prima di quell'ora, Gesù avrebbe potuto essere arrestato cento
volte, dal momento che non si nascondeva per insegnare, e che tutti i
frequentatori del tempio potevano avvicinarsi a lui senza difficoltà. Ma invano
avrebbero cercato di catturarlo. Un tentativo era perfino fallito: le guardie
mandate per condurre Gesù ai grandi sacerdoti e ai farisei avevano rinunciato
a mettere le mani su di lui, ed erano state talmente impressionate dalla sua
predicazione che si erano sentite ormai disposte in suo favore e quasi pronte a
credere in lui (Gv. VII, 44). L'ora dell'arresto era stata fissata dal Padre:
un'ora della notte per simbolizzare l'opera della potenza delle tenebre.
Satana
non può condurre Giuda nel Getsemani e mettere fine all'attività apostolica di
Gesù se non nel momento determinato dal piano divino di salvezza. Soltanto in
quel momento può sottrarre all'umanità la sua luce e sforzarsi di
ristabilire l'oscurità.
Riconoscendo
che questa è l'ora della potenza delle tenebre, Cristo svela un aspetto
importante della Passione, come pure dell'intera economia della salvezza.
Satana ha una funzione, ma soltanto entro i limiti a lui concessi dalla sovranità
del piano divino. Dio tollera che il suo grande nemico svolga la sua attività
distruttrice e si opponga all'azione divina; ma si serve anche dell'attività di
Satana perché il progetto di salvezza abbia successo. Egli trasforma in un bene
per l'umanità ciò che Satana compie per condurla alla perdizione. L'arresto è
un trionfo del demonio, poiché riesce a paralizzare Gesù, a impedirgli di
continuare a diffondere intorno a sé i meravigliosi benefici del suo
insegnamento e dei suoi miracoli. Ma il trionfo è solo apparente: il Padre
celeste utilizzerà l'azione di Satana per la salvezza degli uomini, facendo
scaturire tale salvezza dalla condanna a morte di Gesù. L'ora della potenza
delle tenebre annuncia una nuova aurora: in definitiva quest'ora è più di
Dio che di Satana.
Vedendo
il loro Maestro in potere dei nemici, tutti i discepoli fuggono. Gli evangelisti
non hanno tralasciato di ricordare il fatto, che non fa onore al gruppo degli
apostoli: « Tutti lo abbandonarono e fuggirono » (Mc. XIV, 50).
Cristo
stesso si era preoccupato di proteggere la loro fuga, poiché aveva detto agli
uomini della turba: « Se cercate me, lasciate che questi se ne vadano » (Gv.
XVIII, 8). San Giovanni insiste sulla profonda intenzionalità di questa
sollecitudine, la cui efficacia è una verifica della parola pronunciata dal
Maestro: « Disse ciò perché si adempisse la sua parola: "Non ho perduto
nessuno di coloro che mi hai donato" » (Gv. XVIII, 9; cfr. XVII, 12).
Quando, nella preghiera sacerdotale, Gesù aveva dichiarato che nessuno dei
suoi discepoli si era perduto, tranne il figlio di perdizione, voleva parlare
della perdita dell'anima. Qui, nell'episodio dell'arresto, si tratta di
salvaguardare la vita fisica. Ma eguale è la vigilanza di Cristo nell'uno e
nell'altro caso, e la protezione della vita corporea è il segno della cura
posta nella difesa della vita morale e spirituale.
La
sollecitudine di Gesù è commovente, perché vuole permettere ai suoi discepoli
di abbandonarlo in completa sicurezza; ma certamente il Maestro sente l'animo
straziato nel vedere che tutti i suoi amici lo abbandonano. Un uomo che si trova
nella prova è più sensibile alla presenza consolante di un gruppo di amici;
soffre di più nel vedersi abbandonato da coloro che ama. Cristo accetta
volentieri questa solitudine, che in realtà deve essergli molto penosa, perché
tutto in lui è comandato dall'amore. Mentre si consegna agli avversari, si
preoccupa di mettere al sicuro le persone di cui è responsabile. Vuole
assicurare nello stesso tempo l'opera che ha intrapreso, e la Chiesa di cui gli
apostoli formano il nucleo iniziale.
Un
giovane avrebbe avuto l'occasione di unirsi ceraggiosamente a lui e di dividere
la sua sorte. Questo giovane, probabilmente san Marco, il futuro evangelista,
aveva cominciato a seguire il prigioniero; la turba volle catturarlo, ma egli
abbandonò la sua veste leggera nelle mani delle guardie e fuggì a sua volta.
Ancora una volta la turba si mostrava poco efficiente, poco adatta al suo
compito; non riusciva neppure a impadronirsi di un uomo inerme. In verità chi
proteggeva i discepoli proteggeva anche quel giovane.
La
ragione più importante della diserzione di tutti i discepoli sta nel progetto
del Padre. Non si deve certamente negare la loro viltà, né la loro debolezza
morale, dovuta alla mancanza di preghiera. Ma, dietro la loro condotta,
riconosciamo una superiore intenzione divina. Se l'ora è suonata per il
martirio di Gesù, non è ancora suonata per il martirio della Chiesa; anche ai
discepoli la grazia per questo martirio non è ancora donata.
Il
Padre vuole che suo Figlio si incammini da solo, per primo, verso una morte
eroica, affinché nella sua solitudine porti tutto il peso del futuro martirio
della sua Chiesa. Proprio nel suo martirio gli apostoli e i cristiani dovranno
attingere la forza di offrire il loro. Cristo deve precedere tutti gli altri:
ecco perché, condotto dalla turba armata di spade e bastoni, non ha più
vicino nessuno dei suoi compagni. Dovrà affrontare da solo i capi del popolo
ebreo, restare solo durante il processo, Eccolo spogliato di ciò che sulla
terra costituiva la sua più preziosa ricchezza: il gruppo dei suoi apostoli;
così si completa la nudità spirituale della sua Passione.